DIVENTARE GRANDI: LA SFIDA DELLA LIBERTA’

Sabato 27 gennaio presso il Cine Teatro di Venegono Inferiore, in occasione della festa della famiglia, la Commissione Decanale di Pastorale Familiare di Tradate ha organizzato un incontro con il professor Franco Nembrini sulla storia di Pinocchio, rileggendo le avventure del celeberrimo burattino come metafora del cammino personale di ogni uomo alla ricerca di Dio e della felicità.

Il commento del professor Nembrini, ispirato dal testo “Contro mastro Ciliegia” di Monsignor Biffi, è racchiuso anche nel suo libro “L’avventura di Pinocchio” e nella mostra “Io Pinocchio” (in occasione della Festa della Famiglia 2018 l’Associazione Fiera di San Pancrazio ha organizzato l’esposizione della mostra dal 28 gennaio al 4 febbraio in Sala San Maurizio, presso la parrocchia di Vedano Olona. Hanno avuto modo così di riflettere sui temi affrontati non solo gli adulti, ma anche bambini e ragazzi, visto che gli alunni del vicino Istituto Silvio Pellico hanno visitato la mostra insieme ai loro insegnanti).

L’incontro è stato l’occasione per approfondire alcune tematiche educative che si trova ad affrontare ogni adulto impegnato a vario titolo a interagire con i giovani, a casa, sul lavoro o nella vita quotidiana.

Carlo Collodi è un giornalista che si è allontanato dalla fede in cui è stato educato da bambino per dedicarsi alla politica e ai suoi ideali, i quali però finiscono per deluderlo, tanto che ormai cinquantenne decide di dedicarsi alla letteratura per l’infanzia: nasce così la storia di Pinocchio che un editore pubblica a puntate su un giornale per ragazzi. Non la storia di un Re che crea, salva o governa il mondo, ma la storia di un semplice pezzo di legno, che due falegnami guardano con occhi molto diversi: Mastro Ciliegia, chiamato così per il suo naso rosso come quello dei clown, vede in quel ciocco niente più della semplice gamba di un tavolo, si da dello sciocco e del visionario quando lo sente parlare, non crede al prodigio, si terrorizza di fronte al mistero di questo legno parlante. Mastro Geppetto, invece, chiamato “Polendina” per quella sua parrucca a scodella, color polenta, simile a un sole che rischiara la realtà, in quel pezzo di legno vede un burattino meraviglioso, capace cioè di creare meraviglie, ballando e cantando: non ha paura come Mastro Ciliegia, ma grandi speranze.

Pinocchio è stato scolpito solo fino alla vita, che già con gesto dispettoso toglie la parrucca al Padre che lo rimprovera:- Birba di un figliolo. Non sei ancora finito di fare e già manchi di rispetto a tuo Padre?-. La speranza di Geppetto è tradita subito, ma questo non gli fa sentire meno forte il fatto di essere Padre o che il burattino gli sia Figlio. Anzi, di fronte a quella piccola impertinenza Geppetto piange e commenta “ormai è tardi”. Non è tardi per fermarsi e non finire la scultura, non è tardi neanche per distruggere il lavoro intrapreso o ricominciare da capo: è tardi perché ormai quel Padre ama quel Figlio e lo amerà sempre e comunque, nonostante i suoi limiti e errori. Ma la fedeltà che il Padre dimostra per il figlio non è ricambiata: il burattino si illude che la vera libertà sia fare ciò che si vuole, scansare le fatiche e l’impegno. Appena può scappa di casa, alimenta il pettegolezzo e le dicerie della gente, dei passanti, dei giornalisti superficiali contro il Padre. Capita allora che, come il carabiniere della storia, i politici, i governanti, i “cattivi maestri” per evitare critiche o forse davvero convinti di far del bene rinchiudano in galera i genitori e lascino liberi i figli capricciosi e immaturi: liberi di fare ciò che si vuole anziché essere ciò che si deve.

E tanti giovani fanno la fine di Pinocchio, soli senza più adulti a fargli da guida, con il solo aiuto della loro coscienza: il Grillo Parlante, l’unico animale che non si può far tacere, può forse assopirsi, ma non muore mai nella nostra testa, raccomanda il buon senso, ci ricorda l’impegno, la fatica, la pazienza e la prudenza che fanno crescere. Pinocchio però non lo ascolta: non vuole studiare o lavorare, ma solo “bere, mangiare, dormire, divertirsi e fare dalla sera alla mattina la vita del vagabondo”, come un cane randagio che segue l’istinto senza alcuna meta o affetto.

Tuttavia, appena anche la coscienza tace, in Pinocchio parla la fame, una fame che prima non provava, una mancanza, un bisogno che nasce da dentro e non trova nutrimento fino al ritorno del Padre Geppetto: Egli solo ha ciò che serve per saziare. Un ritorno faticoso, dove il dialogo non è facile. La lontananza del Padre e il silenzio della coscienza lascia sempre conseguenze: Pinocchio, addormentandosi sul focolare non ha più i piedi; ha cominciato a distruggersi e non se ne è neanche accorto. Ora grida chiedendo aiuto a un padre arrabbiato che non crede alla sua fatica, al suo dolore e non sa come entrare in casa per incontrare il suo ragazzo, come aprire la porta della libertà che Pinocchio non può raggiungere e Geppetto non sa sfondare. Allora occorre arrampicarsi fino all’angusta e alta finestra che ci porta dai nostri ragazzi, ci permette di salvarli, di riconoscere le loro grida d’aiuto perfino quando il malefico Omino di Burro (che prima o poi incontreranno sulla loro strada e li condurrà nel Paese dei Balocchi, li sedurrà coi suoi complimenti, regali, divertimenti del sabato sera) distruggerà a tal punto la loro umanità da tramutarne i discorsi in ragli incomprensibili. Trovare la strada per questa stretta finestrella e avere la forza di raggiungerla prima che i ragazzi finiscano impiccati all’albero, è il compito educativo di ogni adulto. Esso avrà il suo compimento in quel perfetto incontro che si realizzerà fra Pinocchio e il suo Babbo nella pancia del pescecane, quando il burattino diventerà portatore di speranza, si caricherà il vecchio padre sulle spalle e lo inciterà alla fuga. Per convincerlo però non basteranno le parole, bisognerà che il vecchio apra il suo sguardo verso il futuro: così Pinocchio a un Geppetto che non riesce più a sperare mostrerà il cielo stellato, mostrerà la bellezza e l’infinito, ciò che vorremmo restasse sempre impresso nello sguardo dei nostri giovani, perché solo questo sguardo può trasformarli da semplici burattini in veri uomini.